Tra i nomadi della Mongolia, i segnali di progresso si indovinano appena: moto sgangherate al posto dei cavalli, parabole per alimentare un minuscolo televisore, vecchi telefonini che raramente trovano campo e pannelli solari piantati nella steppa fuori dalle gher.
A ben vedere, sono trascorsi più di ottocento anni da quando Gengis Khan ha conquistato mezzo mondo eppure puoi star certo che qualsiasi cosa di cui i mongoli vanno fieri è ancora intitolato al condottiero: dalla birra nazionale (la Gengis) all’aeroporto internazionale di Ulaan Bataar. Un vuoto che fa riflettere perché significa che mentre altrove nascevano personaggi capaci di cambiare la storia, niente e nessun ha più reso orgoglioso il popolo mongolo da molto, molto tempo.
Ma basta cambiare prospettiva e quella che può sembrare una mancanza diventa qualcosa di miracoloso, perché è grazie all’immobilismo e a un isolamento accudito come un valore, se gli ultimi nomadi rimasti sulla terra si trovano proprio qui, in Mongolia, e generazione dopo generazione, praticano gli stessi rituali da secoli. E ciò fa di questo luogo l’ultima meta avventurosa del nostro Pianeta.