Bella come l’India

Tra ottobre e novembre del 2019 sono partita con mio padre per l’India. Non potevamo ancora sapere quanto il senso di libertà che abbiamo provato durante il nostro viaggio avrebbe alleviato il lungo isolamento a cui siamo stati costretti pochi mesi dopo. A più di tre anni di distanza dal mio ritorno ripercorro i luoghi (Udaipur, Pushkar, Agra, Orchha, Varanasi, Darjeeling), ma anche le mie tappe interiori, i ricordi e le emozioni che hanno superato il tempo senza perdere un grammo del loro splendore.

 

Ogni cosa avviene sempre nel tempo e nel luogo giusto. Ogni cosa avviene quando sei pronto per riceverla.

Il mio viaggio in India è durato poco più di 20 giorni ma lo aspettavo da circa 20 anni, ovvero da quando ho iniziato a interessarmi seriamente ai viaggi.

Mi affascinava l’India, ma non partivo mai perché l’ho sempre temuta.

Ero certa fosse uno dei luoghi più ostili del mondo. Eppure, quanti viaggiatori vedevo tornare innamorati di questo mistico intruglio di povertà e spiritualità. Quindi, di cosa avevo paura?

A Varanasi un bambino giocava mentre i morti bruciavano sulle pire

 

Il Viaggio degli Eroi

In tutte le storie a lieto fine succede che il protagonista, nel corso della sua avventura e dopo mille peripezie, compie un’evoluzione personale che renderà il nostro Eroe migliore. Credo che lo stesso cambiamento sia avvenuto in me e mio padre perché, da un viaggio che ci ha messi più volte alla prova, siamo tornati a casa riscoprendoci più calmi nell’affrontare i problemi quotidiani e con un rapporto più complice: ci basta una parola per rivivere ricordi solo nostri e uno sguardo per assicurarci che è stato tutto vero.

 

Ma facciamo diversi passi indietro, perché a dirla tutta in India c’ero già stata. Nell’agosto del 2012 ero in Ladakh, uno stato dell’India del Nord ai confini con il Tibet, un territorio a 2800 mt di altitudine e a prevalenza buddista. Viaggiavo da sola, tra l’altro. Ma nella geografia delle mie paure il Ladakh non compariva perché l’aria frizzante e la sua dolcezza era tutt’altra cosa rispetto all’India brulicante di affamati, storpi e mendicanti che visualizzavo nella mia testa.

E in fondo, millenni di miseria li hanno abituati alla miseria: ne sono vaccinati, come contro l’ameba. Non pare loro un problema così urgente.L’odore dell’India, Pierpaolo Pasolini

Alla fine, in quell’India che credevo dantesca ci sono andata nel 2019, con mio padre. Ho fatto una deroga ai miei viaggi in solitaria perché la sua proposta di partire insieme mi è sembrata ancor più epica di girare il mondo da sola. L’unica vacanza da soli io e lui era stata una settimana bianca alla Valtur di Sansicario quando avevo 15 anni.

Insomma, può darsi sia presto per tirare le somme sull’India e non basterebbero 100 viaggi per farlo. Una cosa però l’ho capita: questo immenso Paese è sempre due cose contemporaneamente, spesso opposte, sempre inscindibili.

Grazia e degrado, gentilezza e immoralità, allegria e confusione, l’India che si offre al nostro sguardo è puntualmente contraddittoria, sta a noi scegliere cosa mettere in primo piano e cosa lasciare sullo sfondo.

L’India che ho visto io è immersa nei fiori e nella sporcizia. E io ho sentito di volermi perdere tra i suoi fiori.  Così come nella tenerezza infinita che ho provato per le mucche, tutte magre da far pietà, che camminavano esauste tra i vicoli delle città disponendosi in un’ordinata fila indiana (scusate il gioco di parole ;-).

Credo che il mio sia stato un viaggio fortunato, perché l’India non si è mai mostrata eccessivamente sordida mentre si è rivelata incredibilmente bella. Ovviamente secondo la mia idea del bello.

  1. Bello è stato il comicissimo girotondo di una capra di Varanasi intorno a una pira, all’inseguimento della donna che cospargeva l’incenso sul defunto.
  2. Bello è stato ritrovarmi a ridere al cospetto della morte quando credevo che la tristezza fosse l’unica opzione.
  3. Bello è arrivare in India con la certezza che il tempo che scorre tra la vita e la morte sia l’unico a contare e ripartire chiedendomi se davvero sia così.
  4. Quanti colori possano esserci tra la polvere e quanta vita dove mi aspettavo di trovare niente? Anche questo è stato bello.

Mi sono forse avvicinata di qualche passo all’assoluto?

 

In India io e mio padre ci siamo divertiti, stancati, schifati, estasiati. Abbiamo preso treni di giorno e di notte, dormito nelle case di contadini, osservato le pire bruciare, bevuto tè come facevano gli inglesi. A me è piaciuto tutto a mio padre quasi tutto; ciò di cui proprio non è riuscito a farsi una ragione è non trovare carne e alcol nelle città sante. Per fuggire dall’ennesimo riso con verdure si è risolto ad assaggiare fantasiose interpretazioni di Pizza e di spaghetti aglio e olio. A volte gli è andata bene, altre…beh.

Durante il viaggio l’espressione sul viso di mio padre ha oscillato tra la meraviglia e il disagio benché mi dicesse che l’esperienza indiana lo stava rendendo felice come un bambino.

E a volte sembrava davvero di viaggiare con un bimbo spensierato; specie nelle lunghe attese del treno, quando papà spariva e io abbracciavo il mio zaino, il suo trolley, zainetti e borselli nel timore che da un momento all’altro volessero farsi un giro anche i nostri bagagli. Intorno a me immense famiglie parevano accampate a terra da giorni, sikh affrettavano il passo per prendere un treno, bambini trasportavano sacche tre volte più grandi di loro.

E poi di tanto in tanto compariva un fotogramma di vita indiana in cui faceva capolino mio padre.

Lo vedevo passeggiare tranquillo lungo i binari sorseggiando succo di frutta e sgranocchiando biscotti, con la sua Lacoste e uno sguardo sempre curioso. La presenza di mio padre tra quella gente mi pareva talmente irreale da sembrare un fotomontaggio. Era un’immagine che mi stupiva ogni volta. Lui per me così familiare immerso in una realtà che era quanto di più distante da quella in cui ero abituata a pensarlo.

Ma era solo un riflesso dell’abitudine perché mio padre ha accolto l’India meglio di tanti altri stranieri che viaggiano protetti dai vetri delle auto con l’autista e l’adesivo Tourist sul cruscotto.

Come dicevo ognuno è libero di decidere fino a che punto abbassare le difese e mio padre in India ha spiccato il volo e si è lasciato portare dal vento.


 

Nell’abbraccio di Udaipur

Udaipur è stata la magica chiave di ingresso all’India. Sono bastati due soli giorni per lasciarmi alle spalle la mia vita europea, connettermi con l’India e sentirmi come se fossi in viaggio da mesi.

 

La città di Udaipur è favolosa, nel senso che mi ha fatta sentire immersa in una favola. Ogni albergo, casa o ristorante di questa città è rivolto verso il lago Pichola esattamente come i girasoli guardano al sole. Ciò che più ho amato delle guest house indiane sono i grossi e preziosi lucchetti delle camere e le grande terrazze. All’alba e poi la sera mi attardavo sul balcone della mia stanza ad ammirare il riflesso dei palazzi nell’acqua e la città che si specchiava nel lago diventava un merletto bianco tremolante. Per raggiungere la mia camera dovevo salire gradini talmente alti da dovermi aiutare con le mani. L’ho scoperto con il tempo: dai gradoni che scendono ai ghat a quelli delle guest house, in India usare le scale rappresenta una sfida muscolare e respiratoria importante. Immagino che sia un sistema ingegnoso per guadagnare spazio in altezza quando non ce né in larghezza!

A questa città devo due ricordi che hanno consacrato un segno positivo al rapporto tra me e l’India, per sempre.

Il primo è un massaggio alla fronte con olio di sesamo, seguito da un trattamento ayurvedico sul resto del corpo presso il mitico Ayurveda Massage Center. Una coccola magistrale che mi ha restituita al mondo unta quanto una patatina pronta a essere fritta ma con un’inebriante sensazione di poter volare.

La seconda pietra miliare è stata una corsa in motorino tra i vicoli di Udaipur su un cinquantino guidato da un sorridente ragazzo indiano che credo fosse pazzo. Volevo solo comprare due SIM per i cellulari ma poiché l’attivazione necessitava della presenza di un indiano mi sono fatta accompagnare da questo giovanotto tanto raccomandato dal titolare della guest house. Per chi conosce in regista Wes Anderson posso dire che è stato come essere catapultata in uno dei suoi film. Il ragazzo ha lanciato il motorino con me a bordo a velocità folle tra i minuscoli vicoli del centro storico di Udaipur schivando mucche e pedoni in un zig zag delirante che ogni tanto sfociava in un dietrofront perché trovava la strada chiusa, perché la folla era troppo densa o per divertirsi alle mie spalle visto che non smettevo di ripetere: no, no, noooo!!!

Ma a conti fatti è stata un’iniezione di adrenalina pazzesca, è stato bello, e forse pericolosissimo, eppure mi ha catapultata in tempo zero nell’universo India. Rapido e indolore.

Non solo a Udaipur, in India guidano tutti con allegria e senza aggressività e il clacson suona a dirotto anche se la strada è vuota.  Sembra incredibile ma nonostante la sacralità della vita religiosa e l’indiscussa riverenza per Brahma, Shiva, Vishnu e Ganesh, la venerazione del maschio hindu per il suono del clacson sovrasta di una buona spanna la sua spiritualità.

Pushkar, custode del segreto del mondo.

Secondo la leggenda, Pushkar sarebbe nata in seguito alla vittoria del dio Brahma su un demone che il creatore di tutti i mondi sconfisse grazie all’aiuto di un fiore di loto. Da un petalo che cadde nacque i lago sacro di Pushkar.

 

Da Udaipur abbiamo preso un treno per Pushkar, una delle città più antiche dell’India, nonché città Santa e quindi al 100% vegana, per la gioia di mio padre. Ho fatto in modo di capitarci appena prima dell’inaugurazione della Camel Fair, la leggendaria fiera in cui i beduini si spingono oltre il deserto e fino a Pushkar per scambiare cammelli. La Camel Fair è la più grande di tutta l’Asia e si svolge ogni anno nella settimana della luna piena di fine ottobre. Per quanto la vigilia e la festa di inaugurazione della Camel Fair le abbia trovate imperdibili, siamo scappati da Pushakar prima di addentrarci nel vivo della fiera, quando caos e prezzi rendono la città, di solito paciosa, un assembramento invivibile.

Fiera dei Cammelli di Pushkar

Ma più dei cammelli, le suggestioni più potenti le ho provate durante le ore trascorse seduta sui ghat che circondano il lago di Pushkar, tra suoni ossessionanti, nenie, rituali con il fuoco, fiori rossi e gialli donati alle acque sacre. Non scherzo, è un posto dove l’energia arriva da ogni direzione e durante i rituali di preghiera dei bramini, mi sono sentita in un abbraccio che sembrava voler dire stiamo vicini, in questo posto si cela un mistero, questo cerchio d’acqua stretto tra fedeli e candele conserva il segreto del mondo.

Cerimonia del fuoco a Pushkar

Questo incontro tra fuoco e acqua, gioia e tamburi mi ha fatto tremare l’anima e questo nonostante lungo i muri color ocra dei ghat, i cui nomi sono splendidamente dipinti di rosso, aleggiasse costante e intenso un odore di urina che minava un tantino il mio misticismo.

Appena dietro i ghat si apre una lunga strada commerciale che cinge buona parte del lago; è costellata di negozietti di souvenir, locali un po’ hippie, centri massaggi e i mitici barbieri indiani.

 

Sempre a Puskar mi sono fatta mettere l’henné sulle mani, per me era la prima volta. Ci ha pensato Alisha, moglie di Manoj un commerciante di Pushkar, un amico di un mio amico. Ci hanno accolti a casa loro con grande reverenza, ci hanno invitati a cena e Manoj ha procurato a mio padre un paio di birre di contrabbando. Alisha invece mi ha donato una mezz’ora del suo tempo per crere questo meticoloso e meraviglioso reticolo sulla mia mano.

Di nascosto dal marito le ho regalato 500 rupie (circa 6 euro) per ringraziarla. I miei soldi non li voleva accettare ma di fronte alla mia insistenza mi ha sussurrato che li avrebbe spesi per un Sari nuovo.

Chiamatela complicità tra donne, ma è stato sufficiente questo scambio per sentirmi meno distante da lei. Nei giorni successivi l’hennè da nero è diventato rosso, è così che dev’essere. All’inizio faticavo a guardarmi la mano, sentivo di non avere diritto a portare un simbolo così legato all’universo femminile indiano, era come se fossi entrata in una stanza a cui non potevo accedere. Ma allo stesso tempo iniziavo a capire il piacere di guardare una parte del mio corpo adorna in quel modo. Addirittura le indiane si complimentavano sull’aspetto elegante della mia mano spingendomi a proseguire l’hennè sull’altra. Ma a me bastava così, guardare quei disegni mi riportava a Pushkar, a un abbraccio complice in quella casa con il giardino che profumava di spezie. E anche se le tracce dell’henné sono sparite da anni, ogni tanto ripenso al Sari di Alisha, e mi chiedo se quando lo indossa si ricorda di me, come io conservo nel cuore un’ immagine in cui siamo insieme, entrambe raggianti.

Verso il Mito

C’è chi in viaggio considera lo spostarsi da un posto all’altro una perdita di tempo, io invece faccio parte di quelli che al contrario entrano una specie di catarsi. Treno, autobus, auto, non importa. Durante quelle ore sospese in cui non devo fare o decidere alcunché, il più delle volte provo una sensazione di pienezza assoluta. Sono felice per il solo fatto di andare.

 

Siamo partiti all’alba da Pushkar a bordo dell’Agra Express verso il Taj Mahal. Da sempre viaggiare in treno mi ispira una certa poesia. I mezzi su rotaia mi consentono di guardare il mondo lentamente ma distaccata, sola ma tra la gente. Certo, bisogna avere una certa tolleranza con i treni indiani, inclusi quelli di prima classe. Se è vero che sono riuscita a chiudere un occhio sul degrado dei braccioli consumati e dei sedili macchiati di unto, i bagni sono di solito abominevoli. In particolare quello dell’Agra Express puzzava da dare il vomito.

Diciamoci la verità: anche la campagna del Rajastan non mi è sembrata una gran bellezza, quanto meno il paesaggio lungo le rotaie che da Pushkar portano ad Agra è un scenario di un piattume terrificante: terra e ancora terra. Ma il finestrino aranciato dell’Agra Express ha trasformato il paesaggio regalandomi l’illusione di osservare un Rajastan molto più coerente con l’idea torrida e struggente che cullavo nella mia mente. Questo aneddoto da poco conto mi ha fatto pensare a come siamo fatti, la sorprendente la capacità del nostro pensiero di adattare la realtà alle aspettative, di sfruttare ogni espediente si presenti per evitare la delusione.

Ogni tanto staccavo gli occhi dal mio illusorio paesaggio indiano e guardavo i passeggeri, uomini per la stragrande maggioranza. Oltre a me e a mio padre nel vagone ho notato solo altri due turisti. Poco oltre il mio sedile viaggiava un signore scuro e accigliato con la sua giovane moglie il cui capo era coperto da un magnifico tessuto verde a fiori ricamati oro, rosa e blu. In braccio a lei dormiva un neonato avvolto in un cappottino di pelo tigrato. Eh niente, una volta vista Udaipur, poi Pushkar e infine questa donna con il suo bambino-tigre ho decretato che l’India è un festival per il nostro sguardo occidentale

Alla ricerca del Taj Mahal

Anche osservare il Taj Mahal e farlo corrispondere all’icona impressa nel mio cervello non è stata cosa semplice, come sempre è una questione di punti di vista. Serve programmazione.

 

Avevo scelto un treno che arrivasse a Agra a ora di pranzo, così da visitare il più grande monumento all’Amore mai costruito con le luci del tardo pomeriggio. Cercavo il Mito, l’istantanea vista mille volte sui libri, nei documentari, nelle foto di Steve Mc Curry. Ma c’era tanta, troppa folla. E come sempre accade l’orda di turisti uccide anche la magia dei luoghi più suggestivi. Mi è successo al Macchu Picchu quando il sito si è riempito di gente poco dopo l’alba. E ora al Taj Mahal: una delle sette meraviglie del mondo declassata in un istante a un imponente edificio in marmo bianco destinato a rimanere nello spazio anonimo dei miei ricordi. Siamo scappati dal sito ben prima del tramonto trascinandoci stanchissimi verso l’albergo.

 

Una famiglia si riposa nei giardini del Taj Mahal

Ma quando sono salita per una riposante pausa tè sulla terrazza della guesthouse è successo l’imprevedibile.

Oltre i muri scrostati e i miseri cortili delle case che mi separavano dai giardini del Taj Mahal, si è materializzato il Mito. E si è mostrato per quello che è davvero. Un volume lineare e immacolato atterrato sul pianeta India che di lineare e immacolato ha ben poco. Il Taj Mahal: non è forse, in fondo, un’anomalia del sistema? Un’unità aliena che nonostante la sordidezza di Agra, attira gli innamorati della purezza di tutto il mondo?

Il mio Taj Mahal

Oggi questa visione del Taj Mahal fa parte dei ricordi più iconici dei miei viaggi. Quando ci ripenso mi torna alla mente cosa accadeva nell’attimo in cui ho scattato questa foto. Rivedo un’istantanea carica di vita in cui c’è il canto di un muezzin, le contraddizioni dell’India, la corale degli uccelli e le confidenze di un ragazzo belga dal cuore infranto che si trovava per caso sulla terrazza assieme a me. Vi è mai capitato di raggiungere quel particolare livello di coscienza che trasforma l’anima in una spugna dei sensi? A me succede più spesso in viaggio, ma anche a casa talvolta quando mi concedo un po’ di solitudine e accade come d’incanto di sentirmi intimamente unita con quello che ho intorno.

Orccha, la mia India più vera 

Dopo l’appariscenza del Taj Mahal ci siamo diretti in treno a est, dal Rajastan al Madhya Pradesh per raggiungere Orccha, la città nascosta.

 

La chiamano così perché nonostante lo splendore dei suoi templi Cinquecenteschi e dei cenotafi, mèta di migliaia di pellegrini hindu, si è mantenuta miracolosamente ai margini dei circuiti turistici. L’ho adorata perché era magnifica, semplice e calma, con un fiume brioso dove si lavano i panni e meditano i sadu.

Dormivamo a 20 minuti a piedi dalla città, nel villaggio di Ganj in due famiglie di contadini parte dell’organizzazione Friends of Orccha. Questa associazione è un circuito di accoglienza che permette di avvicinarsi il tempo di qualche notte alla quotidianità di questa gente. E allo stesso tempo insegna alla comunità del villaggio l’arte dell’ospitare e di guadagnare dal turismo.

A piedi da Ganj verso Orccha.

È stato bello dormire in questa realtà autentica, svegliarmi la mattina con il canto degli uccelli e una musica indiana proveniente da chissà dove. E poi mangiare naan e verdure a colazione seduta a terra di fronte al fuoco acceso.

La casa della famiglia che mi ospitava era un portico all’aperto su cui si affacciavano la camera dei genitori, la mia, quella delle due figlie adolescenti, la cucina, un lavandino piccolo piccolo e infine, in cima a quattro gradini esageratamente alti, la porta del wc: un buco incastonato tra assi di legno da cui si intravedeva molto più sotto una terra ben concimata! Era tutto molto umile ma anche dignitoso, la famiglia era dolce e le nostre lunghe conversazioni si svolgevano per lo più a colazione quando la madre mi preparava riso, naan e verdure piccanti. Mio padre dormiva in una famiglia ben più misera e dove nessuno parlava inglese per cui la mattina mi raggiungeva prima di colazione e la mia famiglia l’aveva adottato con gioia.

Diceva bene Fosco Maraini: “se vai in un posto di cui non parli la lingua il bagno è molto meno efficace e non si torna troppo diversi da quando si è partiti”. Ma benché io non parli una parola di hindi la traduzione in inglese della figlia maggiore  mi è bastata per intravedere i loro sentimenti. La madre, una bella donna appena sfiorita, mi ha confidato dei suoi sogni di studi infranti dopo un matrimonio concordato e prematuro, la sua paura del futuro ma anche di quanto fosse fortunata ad aver a fianco un marito che non beve. Purtroppo in India molti uomini dipendono dall’alcol ed è molto frequente che le loro mogli subiscano la loro violenza. Questo è almeno ciò che mi ha raccontato.

La sistemazione toccata a mio padre era meno fortunata della mia poiché l’aia di fronte alla sua stanza era il rifugio di mucche e capre con annessi e connessi.

 

Benares, la vita, la morte, la vita, la morte…e ancora la vita. 

In ogni viaggio c’è un Diamante, la meta più sospirata, una destinazione o un’impresa tanto desiderata da dare la spinta a un intero viaggio. Io ho scelto l’India per vedere Varanasi. Anche se preferisco di gran lunga il suono romantico del suo antico nome: Benares.

 

Se la paura che mi incuteva un tempo l’India si potesse misurare, direi che la città più Santa agli hindu ne occupava uno spazio considerevole. Temevo l’orrore sbattuto in faccia. Rifuggivo il disagio che avrei provato per la distanza siderale tra la mia vita a posto e il destino ignobile di questa gente. Assieme a Calcutta, Benares era quanto di più vicino all’idea apocalittica che avevo di questo Paese. Un inferno brulicante di lebbrosi lasciati morire per strada, un dedalo infernale di mutilati e invalidi.

E invece a Benares non ho avuto paura di niente, nemmeno della morte. Non ne avevo mai vista tanta tutta insieme e da così vicino. Ferma in un bar con un lassi in mano e una cannuccia in bocca guardavo squadre di intoccabili trasportare i defunti su lettighe in bambù. Con le canne del giaciglio bel salde sulle spalle, gli uomini correvano tra i vicoli della città vecchia dritti alla mèta, il sacro Gange. Sembravano avere tutti una gran fretta di raggiungerlo.

Il patto che chiunque debba fare prima di mettere piede a Varanasi è mettersi in pace con l’idea della morte. Seduta sulle gradinate dei ghat crematori assistevo ai funerali senza provare nulla e mi sorprendevo a guardare con più attenzione i parenti e gli amici del defunto piuttosto che la persona che bruciava sulla pira. Sembrava non provassero niente più di un pizzico di umana tristezza. Per capire un modo così diverso dal nostro di reagire di fronte alla morte, occorre ricordare come la più alta forma di quiete e speranza per un indiano siano proprio le ceneri di una persona cara disperse nel Gange.

Ma se oggi ripenso a Varanasi mi tornano alla mente immagini di vita più che di fine vita. Rivedo gli aquiloni nel cielo che i giovani fanno volare dai tetti piatti in cima alle case, sento il trillo dei motori delle barche sul Gange, sempre un po’ coperto dal lamento dei gabbiani che gli girano intorno sperando di guadagnarsi una briciola di qualcosa.

Sono belli gli indiani mentre fanno la puja Giovani e vecchi, donne e uomini, tutti mezzi nudi, sono così concentrati su ciò che stanno facendo che sembrano indifferenti alla foga che anima lo spazio intorno a loro. A tutte le ore si assiste a una via vai di gente che scende dalle immense scalinate dei ghat per seguire pazientemente i rituali di purificazione nel Gange: si svestono, si bagnano, pregano e accendono candele, si immergono in quell’acqua putrida, tornano in superficie e ricominciano elettrizzati per aver raggiunto la salvezza, sollevati al sapere che dopo la morte avranno una vita migliore.

 

Bisogna vedere la dolcezza, la naturalezza e la pace con cui muoiono gli indiani… L’unica cosa consolante e rassicurante nell’atroce vita indiana sono i roghi dei morti.L’odore dell’India, Pierpaolo Pasolini

Così scriveva Pasolini nel suo libro l’Odore dell’India, e credo che sia una frase da tenere bene a mente per guardare i ghat crematori di Varanasi dalla giusta prospettiva, senza dolore, senza il filtro dei sentimenti più angosciosi che per cultura associamo da sempre alla fine della vita.

Dall’India verso Darjeeling

La mia tappa a Darjeeling sembra appartenere a un altro viaggio. Niente mi ricorda la dimensione di fuoco e di polvere delle ultime due settimane.

 

All’inizio, quando pensavo a questo viaggio, cercavo un motivo per andare in India… evitando l’India. Varanasi era sì un potente magnete ma mi respingeva anche. Avevo bisogno di partire sapendo che comunque fosse andata nelle terre indiane avrei prima o poi raggiunto un luogo sereno. E ancora una volta, come quando molti anni fa sono volata nella regione montana del Ladakh, ho trovato conforto nelle atmosfere Himalyane di Darjeeling.

Per arrivarci abbiamo percorso uno dei 100 itinerari su binari più belli del mondo. Alla stazione di New Jalpaiguri siamo saliti sul Toy Train, dal 1999 Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, diretti alla città di Darjeeling

Questo delizioso treno a scartamento ridotto viaggia abbastanza piano da guardare volare le farfalle: gli 80 km che separano New Jalpaiguri da Darjeeling li percorre in 8 ore.

Piantagioni di tè nel Darjeeling
Lungo il percorso del Toy Train

Più che un treno vero sembra un giocattolo. È talmente basso e stretto che la sua rotaia si insinua tra le strade dei villaggi e allungando un braccio fuori dal finestrino si possono quasi toccare i banchi dei mercati.

Dopo 2 ore di viaggio avevamo percorso 9 chilometri raggiungendo la prima fermata del percorso, Surna. Per chi come me ama viaggiare con lentezza il Toy Train in un giorno di sole, come quello che ho trovato io, vale tutto il viaggio.

Il Toy Train propone una 1a classe, rifinita e ordinata con i sedili in pelle. Ma a mio parere la seconda classe è decisamente più interessante perché le persone sembrano più allegre e si addice meglio alla giocosità della situazione.

Pigramente abbiamo attraversato immense foreste e fitte vallate piene di alberi giganteschi da cui sventolavano bandiere di preghiera, con la sirena del treno che avvertiva i pedoni del suo passaggio. Otto ore di salita che a me sono sembrati dieci minuti perché su quel treno mi sono divertita come una bambina. Siamo arrivati a Darjeeling alle 17:30 di un giorno fine novembre ed era già buio.

Dal giorno successivo mi sono goduta questa città che si inerpica eroicamente lungo il fianco della montagna.  L’atmosfera era leggera, il cibo più spesso tibetano che indiano, l’aria frizzante era intrisa di quiete buddista. Passeggiavo tra le piantagioni di tè, passeggiavo per vedere la cima innevata del Khangchendzonga, la terza montagna più alta del mondo che all’alba si tinge di rosa, passeggiavo alla ricerca di pashmine morbidissime da riportare a casa. Parlavo di sogni e di vita con un nuovo amico indiano, mangiavo torte alle mele nei bar e momo nei ristoranti.

 

Bello è stato urlare Woooow!!! al cospetto della cima del Khangchendzonga adagiata sopra le nuvole che all’alba cingono la città di Darjeeling.

 

Il cerchio si chiude.

La dolcezza di questa ultima tappa a Darjeeling è stata un balsamo perché mi sono profondamente rilassata. Immersa corpo e anima in questo viaggio non mi ero accorta che vivere l’India mi aveva richiesto uno sforzo.

 

Ho percepito ciò che potrei definire una piccola contrattura nell’anima, una fatica che avevo taciuto a me stessa ma che ho notato per differenza non appena, arrivata nel Darjeeling, le mie difese sono cadute. Se l’India prima di Darjeeling mi ha costretta a irrigidirmi un po’, in fondo non mi meraviglia. Io e questa gente apparteniamo a una cultura opposta e per ciò è giusto smettere di immedesimarmi come fossimo simili, perché non c’è niente da fare, ci separa una galassia di tradizioni, valori e credenze millenarie: quando io conto su me stessa loro si affidano a un Dio. Quando di fronte alla morte io tremo loro si abbandonano.

All’inizio non li capivo, poi un certo punto del mio viaggio a forza di osservarli ho intuito perché gli indiani si trascinano nella vita esattamente come strisciano fino alle sacre acque del Gange o del lago di Pushkar.

Per questa gente immersa nella religione, come se il culto fosse un’oceano, la vita è un mezzo incerto e male assemblato per raggiungere un’oceano ancor più grande. Gli indiani sono così, profondamente religiosi, sorridenti e di una tenerezza unica, testimonianza dell’invincibile alleanza tra Dei e fedeli.

Pushkar

Sono tornata dall’India piena di luce e non ho smesso di pensarci per mesi. Non mi capacitavo di quanto l’esperienza vissuta fosse stata diversa dai miei timori. Ci saranno altre Indie per me, ne sono sicura. Altre strade da percorrere per vederla ancora e ancora, in lungo e in largo seguendo nuovi Diamanti che mi spingeranno a ripartire…ad esempio, in questi primi giorni del 2023 c’è il nome di una città indiana che ritorna spesso nella mia mente…Pondicherry… non pare anche voi che suoni meravigliosamente?

A me sembra un richiamo irresistibile…

Stay tuned….;-)