Ho conosciuto Padre Benjamin Eishu durante un viaggio nel Delta dell’Irrawaddy nel 2017, il grande fiume della Birmania. Father Ben, come viene chiamato, è un sacerdote Karen di religione cristiana che da solo ha portato in salvo da morte e abbandono centinaia di vite, donando loro amore e la speranza di una seconda occasione. Ho trascorso tre giorni nella sua comunità di orfani e disagiati, giorni durante i quali ho parlato, mangiato e passeggiato con lui nella foresta, conosciuto i suoi quattro figli adottivi e incontrato gli orfani che protegge. Al ritorno volevo far conoscere la sua storia e soprattutto non volevo dimenticare quale dono fosse stato per me incontrarlo. E così, dalle parole che mi ero appuntata mentre mi guardavo intorno e lo ascoltavo parlare, è nato questo testo.
“Il giovane tronco che vedi è in vita grazie a questo albero più anziano. Sono specie diverse, ma a scapito di sé stesso il più adulto ha permesso al piccolo di mettere radici tra le sue. Di attingere forza dallo suo stesso pezzetto di terra, qui nel Delta dell’Irrawaddy. Con Padre Celestine abbiamo deciso che abbatteremo il grande, purtroppo non possono sopravvivere entrambi”. In piedi, nel cuore della sua Foresta di Nazareth, nel Delta dell’Irrawaddy, Father Ben guarda con tenerezza il fusto giovane chiaro adagiato sulla corteccia scura e matura; gli stessi segni di generosità e saggezza che illuminano il suo sguardo, sempre vigile ad ogni essere vivente si offra nel suo raggio di azione. “È stata una decisione lunga e sofferta, ma siamo d’accordo che la vita debba andare avanti”.
Forse io, questo vecchio tronco e le frasche della Nazareth Bush siamo su questa terra per lo stesso motivo, salvare chi è troppo piccolo o debole per difendersi, proteggerlo e vederlo crescere.
Molto più in alto, sopra di noi, le fronde ci tengono all’ombra del caldo sole di dicembre birmano, tutto qui sembra voler contribuire a proteggere qualcosa.
La Family of God (Famiglia di Dio) è nata in questo posto, a pochi chilometri da Myaungmya, una cittadina fluviale nella Birmania del Sud Ovest. Siamo nella regione del Delta dell’Irrawaddy, nel centro di quella che durante l’imperialismo inglese era la più grande risaia del mondo.
Un atto d’amore iniziato nei primissimi anni ‘90, quando Father Ben un birmano cristiano di etnia Karen, arrivò a Myaungmya come sacerdote locale della diocesi di Pathein. All’epoca era un padre spirituale della comunità, con il desiderio di fondare un monastero per i fedeli bisognosi di spazi di preghiera e di contemplazione. Ma per quell’uomo gracile, intellettuale e solitario di ormai 43 anni, Dio aveva altri progetti. Una vocazione che avrebbe riempito la sua esistenza di nuovo significato e salvato centinaia di anime dalla morte o dall’abbandono. Il Signore lo voleva padre. Voleva che fosse il padre di tutti i bambini senza padre.
“A pochi mesi Julie aveva già perso entrambi i genitori. Sua nonna venne da me una domenica di agosto del 1991, nel giorno in cui festeggiavano l’Assunzione, supplicandomi di occuparmene come tutore. Julie è stata il primo seme della Family of God”. Di bambini come Julie ne sono arrivati altri due, poi cinque, poi dieci, poi cinquanta, e nell’appezzamento dove doveva sorgere il monastero, Father Ben ha costruito la loro casa. L’ha chiamata Nazareth, come il luogo che ha visto nascere e crescere Gesù. All’inizio, nel 1999, c’erano solo cespugli. Ha lasciato che la natura facesse il suo corso e in 20 anni la Nazareth Bush è diventata una foresta fitta e rigogliosa.
Oggi Benjamin è padre adottivo di 4 orfani, tutore di 200 bambini e protettore di circa 30 famiglie originarie del Delta dell’Irrawaddy, alcune delle quali sono composte da donne vedove o scappate da mariti violenti. Tutti insieme fanno parte della Family of God, una comunità generosa come una risaia del Delta dell’Irrawaddy, perfettamente autosufficiente e dove si respira la serenità, l’amore e il senso di sicurezza che emana da Father Ben.
La Nazareth Bush è la prima delle 4 sedi della comunità, 3 delle quali nella regione del Delta dell’Irrawaddy. A Nazareth vivono e studiano i più piccoli e abitano alcune famiglie. A Myaungmya c’è il Bettany (che nel Vangelo rappresenta il luogo dell’Amicizia), la casa che ospita i ragazzi che vanno alle superiori. Poi c’è il Saint Lucy (collegio femminile e maschile a Pathein, il cui nome è dedicato alla madre di Padre Benjamin, scomparsa nel 2009). E infine a Yangon dove nella Phi Lucy (Phi significa nonna in lingua Karen) abitano i giovani della Family of God che si specializzano nell’insegnamento.
Forse Dio non ci ha fatti tutti uguali. Persone come Father Ben sembrano avere un soffio diverso dentro. L’ho visto la prima volta alla fermata degli autobus di Myaungmya, venivo da Pathein la cittadina più importante nella regione del Delta dell’Irrawaddy, era lì che mi aspettava. Ho avuto l’impressione di un uomo fragile e d’altri tempi, con la sua corporatura minuta e il viso che sembrava scolpito nel mogano. Indossava colori tranquilli: un lonjyi indaco, una blusa lavanda e una tracolla di lana blu; un tipo di borsa a frange che usano tutti i birmani di etnia Karen. Era alla guida di un fuori strada Toyota Surf troppo grande per lui e portava lenti esageratamente spesse per quelli che all’inizio mi sono sembrati occhi piccoli e sfuggenti. Solo più tardi ho capito che diventano più grandi e intensi nel momento in cui si concede a una conversazione più intima, che va oltre le iniziali frasi di circostanza. A sera, il suo sguardo si era fatto acceso come quello di un puma. E nel suo modo di interagire con i bambini, gli insegnanti, cuochi, gli assistenti, gli amici e i membri della comunità, la sua personalità si era espressa pienamente.
La mia vita è una catena di conseguenze in bilico tra miracolo e magia. La Family of God vive del nostro impegno ma soprattutto di grazia ricevuta. Ho imparato a riconoscere quando Dio mi chiama, e ogni volta che assecondo la sua volontà, ricevo doni inaspettati che permettono alla comunità di fare passi avanti
Father Ben è un pragmatico sognatore, un acuto visionario, un uomo armato da mille talenti. Tutti quelli che servono per assumersi grandi responsabilità per molte persone. Il suo inglese è immacolato, la sua padronanza del francese è impeccabile, nonostante siano passati quasi 30 anni da quando ha lasciato la Francia (dove per otto anni e mezzo aveva studiato teologia biblica all’istituto cattolico di Parigi prima, come parroco di una piccola comunità tra Tolosa e Bordeaux poi), ha conservato le mille sfumature di un vocabolario degno di Sartre. Ha carisma da vendere e un buon fiuto per gli affari. Il sistema economico che ha messo in piedi per la Family of God si regge saldamente su 4 pilastri o “fattori di investimento”, come tiene a puntualizzare lui: gli alberi, la terra, le persone, i libri. Per tutta la comunità la parola d’ordine non sono le entrate bensì le mancate uscite. Se crescono gli alberi, non dovremo pagare la legna per costruire le nostre case. Se coltiviamo la terra ci sarà sufficiente riso per tutti. Se la comunità fiorisce ci sarà più forza lavoro che si impegnerà per l’autosostentamento, l’educazione dei ragazzi, la mano d’opera necessaria ai lavori di manutenzione e ampliamento. Se leggiamo libri sapremo sviluppare la conoscenza che serve per apprendere nuove tecniche di lavoro e la cultura necessaria per innalzare lo spirito e creare nuove alleanze con chi condivide i nostri stessi valori di fratellanza. Il collante di questa comunità è il senso di appartenenza, il suo motore la riconoscenza. Sono più compatti di una squadra di rugby, nessuno cerca ricchezza al di fuori, l’appagamento sta nel riuscire a contribuire al mantenimento e allo sviluppo di questo cerchio magico di amore e dedizione. Per molti di loro il sollievo di essere qui, mitiga il dolore della disgrazia che li ha colpiti.
Tuttavia per Father Ben l’esistenza della Family of God, così com’è oggi, non sarebbe stata realizzabile con il solo impegno umano. “La mia vita è una catena di conseguenze in bilico tra miracolo e magia. Viviamo di impegno ma soprattutto di grazia ricevuta. Ho imparato a riconoscere quando Dio mi chiama, e ogni volta che accetto la sfida che richiede assecondare la sua volontà, ricevo doni inaspettati che permettono alla comunità di fare passi avanti. Un anno dopo l’arrivo di Julie sono arrivati 2 bufali e 6 campi, donati da una vedova che ho accolto nel 1992 assieme ai suoi 6 figli. Con l’arrivo dei campi e dei buoi ho imparato il lavoro contadino e la riso-coltura, riuscendo negli anni a provvedere a buona parte delle esigenze alimentari della comunità. Sull’ordinario siamo autosufficienti. Ma per lo straordinario contiamo su qualche piccolo aiuto che ci arriva attraverso donazioni private (chi fosse interessato può scrivermi tramite il form per un contatto con Father Ben).
Come Sebastian, un amico artista di Vienna, che grazie alla vendita di un quadro ci ha versato la somma necessaria per acquistare ulteriori 32 acri di terreno. E più tardi lui e la sua famiglia ci hanno donato il primo trattore da 48 cv. Nel 2007 la colletta di una comunità cattolica di Singapore ha consentito l’acquisto del nostro secondo trattore, più potente, con cui velocizzeremo la semina del riso che fino ad oggi facevamo a mano. Ciò significa che i fusti cresceranno prima che l’acqua di maggio e giugno allaghi i campi soffocandone la crescita. Se guadagniamo tempo sui monsoni, avremo un raccolto di riso molto maggiore, che garantirà razioni più abbondanti per tutti.
Sono tutte queste le grazie che rafforzavano la mia convinzione di essere sulla strada che Dio ha scelto per me. È in nome di questo che la mia prima figlia adottiva, la prima della quale sono diventato formalmente padre, l’ho chiamata Grace. È il punto cardinale della mia vita, del mio futuro e, se lei vorrà della Family of God. Era il 21 gennaio 2002 quando un uomo devastato dalla morte della moglie, mi ha portato la figlia di 4 mesi. Non trovava la forza di occuparsene. Non mi stava chiedendo di diventarne il tutore, come nel caso di Julie e degli altri 100 bambini che avevo accolto fino a quel giorno, ma di sostituirmi integralmente a lui, come fossi il suo padre biologico. Tra tanti, quell’uomo aveva scelto me e per questo io accettato di amare e proteggere incondizionatamente Grace per tutta la vita. Il bello di una società tradizionale, come è ancora quella Birmana, è che adottare è molto semplice. Una firma davanti al capo del villaggio e ora Grace è parte di me”
Scorrere l’album di fotografie che Father Ben conserva di Grace, è un tuffo nell’idea più dolce che abbiamo dell’infanzia. Ogni immagine ritrae il sorriso e lo sguardo di una bambina che si sente al sicuro. Oggi Grace ha 15 anni, una salute un po’ cagionevole (a causa della malnutrizione dei primi mesi), ma un’intelligenza acuta, un inglese più sviluppato degli altri bambini della comunità, e un’intangibile marcia in più. Non c’è timidezza nella sua sicurezza, nessuna esitazione quando mi parla dei suoi sogni di diventare medico. Grace ha la personalità di chi è cresciuta bene e ha quel meraviglioso, congenito e inguaribile sorriso birmano.
Benjamin Eishu, che in Karen significa “Ama la tua razza”, è nato a Myaungmya il 2 maggio 1949. Per la Birmania, e specialmente per la gente del Delta dell’Irrawaddy non è un giorno come un altro, perché in questa stessa data del 2008, il ciclone Nargis ha spezzato l’esistenza di oltre 100.000 birmani, la maggior dei quali viveva in questa regione. L’onda devastante degli effetti di Nargis si è propagata per anni e molti orfani e famiglie rimaste senza nulla hanno cercato rifugio sotto l’ala di Father Ben. “Credevo si potesse solo morire di malattia, di vecchiaia o per incidente. Ora so che si può morire anche di sfinimento. È successo alla madre di Giacinta, Francesco e Lucia. Dopo aver perso il marito con il ciclone e a pochi mesi dalla nascita dei 3 gemelli, la vita l’ha semplicemente abbandonata. Gli zii me l’hanno chiesto e così li ho adottati. Dopo Grace sono diventato padre de “la tripletta”, come chiamiamo tutti affettuosamente i gemelli, e che oggi hanno 8 anni.
Se all’inizio del mio noviziato mi avessero detto che nella vita avrei avuto 4 figli adottivi e una famiglia di oltre 300 persone, mi sarei fatto una sonora risata. Non ho rimpianti, non ho preoccupazioni perché ho fede nella provvidenza che è sempre dietro l’angolo. Ho ancora tanti progetti da portare avanti, desideri della comunità da realizzare. Si interrompe, risponde a un messaggio sul cellulare e impartisce alcune disposizioni al telefono. Poi piega la testa e socchiude gli occhi.
Sai qual è il mio sogno? Ritirarmi a meditare, in solitudine. Riempirmi della pace di questa foresta, dell’odore dei fiori”.
Mentre cammino al suo fianco, sento odore di margherite e la voce dei bambini che con le maestre provano Astro del Ciel. Tra pochi giorni è Natale ma fa talmente caldo che sembra di essere a Ferragosto. Penso a quanto sono lontana dall’Italia e a quanto mi risulti facile sentirmi a casa in questo posto che rimane dentro. Capisco perché ci vengono in tanti e quasi nessuno va via. È uno dei pochi luoghi in cui tutto l’universo sembra finalmente quadrare.
Foto e testi Giorgiana Scianca (all right reserved)