Da alcuni anni tutti i Colombiani osannano Medellin: è la New York della Colombia, la città della rinascita, fulcro di innovazione e di vitalità culturale! Eppure fuori dai confini nazionali la sua immagine di città più pericolosa del mondo (lo è stata certamente fino a metà degli anni 90) è ancora viva. Il fatto che io abbia incrociato pochissimi turisti ne è la prova. E invece a Medellin ci si può andare senza paura, anzi ci si deve andare, non fosse altro che per i suoi straordinari murales che descrivono la sua gente meglio di qualsiasi altra cosa. In questo post vi racconto alcune cose che mi hanno colpito di lei.
I love Medellin
L’ho raggiunta a bordo di un aereo a diciannove posti proveniente dalla regione del caffè. Quando dall’alto di quell’aereo il mio sguardo si è poggiato su Medellin, avevo ancora negli occhi il verde rigoglioso e la pace del villaggio di Salento. L’impatto è stato forte. Dal punto di vista estetico, non si può dire sia una bella città; eppure emana una carica emotiva potente. Mi ricorda la faccia dei duri che con sguardo fiero si rimettono in piedi dopo essere stati picchiati a sangue.
Lei è così: ferita, chiassosa, risentita, vitale, iper popolata, carismatica.
E poi è luminosa e il clima è sempre mite, per questo la chiamano la città dell’eterna Primavera. Dall’alto dei suoi 1495 mt s.l.m. si adagia in una grande valle sotto il cielo delle Ande. Mi ricorda La Paz, una città boliviana che ho amato molto. Come lei, Medellin è arroccata in modo surreale sulle montagne. Entrambe sono belle viste dal finestrino di un aereo: una distesa di casette senza intonaco illuminate dal bagliore dei tetti in lamiera. Qualche torre residenziale dove vivono i più benestanti, le fa sembrare più umili di quello che sono.
A Medellin non c’è adulto che non abbia perso una persona cara nella guerra del narcotraffico.
Per oltre mezzo secolo è stata la capitale della droga, della violenza e della crudeltà. L’orrore ha violato ogni casa e decimato intere famiglie. Se quelle mura potessero parlare ci renderemmo conto che non c’è limite alla crudeltà.
Una corruzione estrema che non ha risparmiato le forze dell’ordine diventate sicari al pari dei membri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane). Non che oggi sia il posto più tranquillo dove andare (su consiglio del gestore dell’ostello ho evitato di farmi un giro al mercato cittadino) ma di certo non è più la città da 500 vittime al mese terrorizzata da Pablo Escobar e dal cartello di Medellin negli anni ottanta.
Ho sempre sostenuto che il viaggio prosegue ben oltre il ritorno a casa, almeno per me è così: nel momento in cui un posto mi entra nelle vene, il mio interesse per la sua storia si accende.
Film, libri, articoli, documentari, intercetto ogni cosa. Al mio ritorno dalla Colombia mi sono bevuta tutta la serie “Narcos”. Provavo una specie d’infatuazione per la storia recente di un Paese che non è neanche il mio e ogni volta che ascoltavo la sigla iniziale quasi mi commuovevo. Il pezzo si chiama Tuyo, di Rodrigo Amarante. Per chi volesse ascoltarla eccola https://www.youtube.com/watch?v=ecU9mdz9mfM
Dov’è finita l’indolenza sudamericana?
Il Centro e il Sudamerica mi hanno abituata che per quanto possa essere grande o piccolo, ricco o povero, bello o brutto, quasi ogni centro abitato ruota intorno a una piazza rettangolare o quadrata su cui si affaccia una chiesetta color pastello, case a un piano, balconi fioriti, una fontana anonima nel centro e i tavolini di qualche ristorante da pochi soldi. C’è sempre un anziano fotogenico seduto su una panchina sotto un albero frondoso, un carretto che vende empanadas e un ciabattino che spolvera come un forsennato, visto che qui gli uomini non si tolgono le scarpe di pelle neanche con 35° gradi.
La piazza di solito rimane semideserta fino a quando tutto cambia e arriva una quantità insospettabile di gente, uccelli e bambini. Il tardo pomeriggio; per me è questo il momento magico: l’ora in cui il Sudamerica esplode con tutta la carica di gioia.
A Medellin non è così, è una città senza un centro, almeno per come lo intendo io.
Il ciabattino, il venditore di empanadas (che in Colombia chiamano arepas), una fontana ci sono sempre. Ma non c’è traccia dell’indolenza e di un posto dove sedersi a riposare senza essere preso d’assalto dai venditori ambulanti. Quanto al vecchietto fotogenico, non ne ho visti.
Per arrivare da Plaza de Cisneros a Plaza Botero mi sono trascinata tra una fiumana di gente, su marciapiedi ingolfati dai banchetti dei venditori di cibo, frutta e paccottiglia. È un percorso dantesco, invaso da un traffico disumano e uno smog che taglia il respiro. Per fortuna le enormi statue realizzate da Botero sulla piazza che porta il suo nome sono decisamente uniche.
Eppure alcune cose di lei la rendono intrigante, piccole rivoluzioni urbanistiche che hanno fatto di lei una città unica
Hanno costruito scale mobili a cielo aperto per rendere più agevole spostarsi tra le strade scoscese della “tristemente” famosa Comuna 13.
Ci tenevo a visitare questo quartiere. Fino a qualche anno fa non ci entrava neanche la polizia visto che era un territorio di conquista di narcotrafficanti e FARC e bande. Se Medellin era la città più pericolosa del mondo, Comuna 13 era il quartiere più pericoloso della città.
Da quassù Medellin si vede tutta, potevano controllare l’entrata e l’uscita delle armi, dei soldi, della droga. Tutti ne reclamavano la sovranità, per lei si battevano e ammazzavano chiunque ci abitasse nel momento sbagliato. La “escombera” è un cumulo di terra ai piedi di una collina della Comuna: là sotto ci sono i cadaveri di centinaia di innocenti.
Gli abitanti di oggi ci convivono ma non scava nessuno. Non è permesso e non si ha il coraggio.
Oggi alcune agenzie organizzano dei walking tour nella Comuna per vedere i giganteschi murales che colorano ogni angolo del quartiere. Sono rappresentazioni simboliche della natura e delle origini africane dei Colombiani; hanno un forza espressiva paragonabile a quella di grandi artisti come Gauguin. Le scale mobili integrate in queste strade sono surreali. Sembra il pezzo di un centro commerciale spostato nel cuore della gente. Ci sono addirittura degli appositi addetti che le vegliano e le spolverano. Il ragazzo che ci fa da guida nella Comuna le critica. Sostiene che non ha senso spendere in innovazione laddove la gente ancora lotta per conquistare i bisogni primari. Ci ha acccompagnato tra le strade della Comuna, raccontandoci con fervore la storia del quartiere e la condizione attuale dei suoi abitanti. (questo è il tour che ho fatto io e che consiglio http://www.medellingraffititour.com/)
Lui è nato nella Comuna, e ha fatto dell’hip hop la sua fede, la chiave per il riscatto dal degrado e la violenza. Un mondo migliore costruito dal basso, grazie a fratellanza, amore, creatività e impegno sociale. Ha il carisma di un messia e l’assolutismo di chi ha imboccato una strada quando tutti credevano che non ce ne fosse una. E si è portato dietro un bel po’ di gente che condivide le sue idee. Il suo regno di musica, arte e fratellanza si chiama Casa Kolacho, una realtà piccola ma potente, che ha reso possibile la realizzazione del 90% dei Murales della Comuna 13. Da poco sono stati autorizzati a dipingere non solo i muri, ma anche le lamiere dei tetti. Parla della Comuna come di un posto tranquillo, dove adesso si può vivere abbastanza serenamente. Ma a dire di un ragazzino, con cui mi sono fermata a parlare per qualche minuto, nel quartiere regna ancora la paura. A chi devo credere? Nel dubbio da quel momento in poi sono rimasta bene attaccata al gruppo.
Medellin è la prima città al mondo dove ci si sposta con le telecabine, le stesse che si prendono sulle piste da sci.
Funziona così. La città si è popolata a dismisura, quindi se servono case le costruiscono sui due costoni della montagna. Più sei in alto più sei povero. Più sei povero, più il centro, la vita, il progresso e l’integrazione è lontano da te. Ti senti messo ai margini, ti arrabbi e prendi strade sbagliate. I quartieri diventano ghetti, pericolosi e inavvicinabili. Ma ecco che arrivano le telecabine per dirti che tu hai diritto di andare e venire dal centro quanto i ricchi del Poblado (lo chiamano il quartiere “rosa” ed è il preferito dai turisti occidentali perché è disegnato sui nostri gusti e le nostre abitudini. Non lo nego, è stata un’oasi di pace anche per me)
Per loro la telecabina è un mezzo di trasporto, per me è l’occasione di raggiungere posti dove non mi sarei mai spinta, di osservarli senza veramente essere vista e senza correre rischi. Librarmi sopra interi quartieri, vedere come si snodano i pertugi tra le case sparpagliate a caso. Capire che tra questi meandri si nasconde la vita della gente. Qui i ragazzi giocano a calcio su piazzette che interrompono vicoletti e scale ripide. Giganteschi murales sembrano voler gridare la loro indignazione a tutta la città. La musica delle case si fonde con quella del barrio più su o più giù. Sono perlopiù ritmi africani, per non dimenticare che dentro di loro, i più poveri, scorre il sangue degli schiavi portati fin qui dai galeoni spagnoli.
Ci sono 2 linee di telecabine perfettamente integrate con la metropolitana. Su http://seecolombia.trave trovate un bel post di un tale Chris che vive da 4 anni in Colombia e che descrive benissimo i percorsi che si possono fare, non potrei scrivere di meglio.
In metropolitana non si mangia e non si beve.
È un perfetto ibrido tra l’organizzazione scandinava e il caos Sudamericano. Nei vagoni non è consentito mangiare né bere e tutti gli abitanti sono invitati a fare rispettare questo regolamento. E lo fanno! Perché semplicemente l’adorano. Da quando è arrivata nel 1995 ha cambiato la vita a tutti, basti pensare che non c’è un muro graffittato, cosa che nella città dei murales non è roba da poco.
In alcune stazioni si aspetta la metro in corsie ben delimitate, tipo l’ultimo tratto di fila per salire sull’ottovolante. In corrispondenza di ogni corsia si apriranno le porte degli scompartimenti. In questo modo i passeggeri si distribuiscono dove c’è meno gente. É intelligente. A logica dovrebbe facilitare la gestione degli spazi anche dentro. E invece no, negli orari di punta i vagoni straripano. Questa metropolitana l’ha costruita una compagnia spagnola. Il ragazzo che mi sta portando alla Comuna 13, mi racconta che nel disegnare le maniglie per reggersi, i progettisti non hanno tenuto in considerazione un dettaglio fondamentale: l’altezza media di un maschio colombiano è di 7 cm inferiore ai parametri medi di un uomo europeo. Il risultato è che i Colombiani non ci arrivavano e che a lavori finiti la compagnia ha provveduto a curvare le sbarre in modo che risultassero più basse di qualche centimetro. Il lato positivo del fatto che in vagone ci salga così tanta gente, è che bastano i corpi, le borse e i gli zaini degli altri per rimanere in piedi. Mi affascina osservare quanto il risultato di un processo apparentemente solo scientifico è intriso di conoscenze umanistiche. Il caso della metropolitana di Medellin, è l’ennesima prova di quanto discipline apparentemente distanti siano in realtà strettamente interdipendenti.
Ho sempre avuto poca memoria, per questo in viaggio prendo appunti per ogni cosa, altrimenti dopo un po’ le sfumature svaniscono come nei sogni. Sulla metro ho osservato i passeggeri per trovare quella manciata di aggettivi che mi permetteranno di ricordare che facce hanno gli abitanti di Medellin. Ma non li trovo. Ognuno è un’eccezione: c’è chi ha tratti africani e chi andini, altri sono chiaramente di origine ispanica, taluni potrebbero sembrare europei. Ci rinuncio. Sono lo specchio di tutte le guerre i mondi che abitato questo paese nei secoli