Mi piace pensare che se dichiari il tuo amore a Istanbul, lei ti ricambia con una magia.
Io ho conosciuto Ara Güler. Per chi non sapesse chi è, Güler è un fotografo molto famoso. Le sue immagini di Istanbul degli anni 50 e 60, la sua città, ritratti intimi e lontani della sua gente, hanno fatto il giro del mondo. Era amico di Picasso, Chagal, Bresson, e molti altri artisti famosi, oggi è un uomo di 85 anni in sedia a rotelle ma è ancora talmente arzillo e visionario che sotto il suo storico studio ha aperto un bar che porta il suo nome, l’Ara Kafé.
È gestito molto bene da un gruppo di giovani seguaci che lo hanno trasformato in un posto leggendario quanto lui. Sulle pareti di mattoni ci sono grandi stampe delle sue foto più memorabili, ce ne sono alcune anche lungo il muro del vicolo che percorri per raggiungere la porta d’ingresso, appena dietro Istikal Kaddesi. D’estate nel vicolo il bar ci mette anche i tavolini, a maggio sarei voluta tornata anche qui. È un libraio di Istanbul che mi ha indicato l’esistenza di questo bar.
Nel suo buco pieno zeppo fino al soffitto di libri nuovi e usati, ho comprato “Istanbul”, una raccolta di immagini scattate da Güler e accompagnate dai ricordi di infanzia di Omar Pamuk che racconta così la città dove anche lui è nato e cresciuto. Il libro era un’edizione tedesca, c’era solo quella ma l’ho preso lo stesso, sentivo che non ne avrei trovata un’altra copia prima di ripartire. Alla fine il libraio ha aggiunto che al Ara Kafé, capita d’incontrarci il vecchio fotografo.
Mezz’ora dopo ero in quel bar e lui c’era. Se ne stava seduto a un tavolo nel centro della sala, si guardava intorno. Era immerso tra le sue immagini formato maxi e decine di giovani clienti che ignoravano la sua presenza. Forse neanche sapevano chi fosse o magari era talmente familiare vederlo lì che non era più eccezionale per nessuno. Per me, invece, era un’apparizione.
Ho sempre disprezzato chi rincorreva un personaggio famoso per farsi fare un autografo, non parliamo dei selfie. Puoi dire di averlo conosciuto? No, e la cosa più probabile è che gli risulti patetico e fastidioso. Ma il mio deve essere un sentimento di timidezza mascherato da orgoglio perché anche se cercavo di ignorare il fatto che Ara Güler fosse a portata di mano, friggevo, con il suo libro appena comprato sul tavolo. Sarebbe bastato un soffio per riempire la prima pagina bianca con una dedica scritta di suo pugno.
Ho sentito salire in me il coraggio di avvicinarmi a lui appena il tè caldo mi è entrato nelle vene credo. Ma nel momento in cui ho spostato la sedia per alzarmi mi sono voltata e Ara Güler era scomparso.
“Torna?” Ho chiesto al gestore del bar tenendo il libro stretto tra le braccia. “È salito nel suo studio, quando scende va a casa”. Mi ha detto di aspettare all’ingresso e che mi avrebbe avvertito quando era il momento. Senza una spiegazione, ho lasciato Marco solo al tavolo per fare il palo alla porta del bar. Quando Ara Güler è sceso il gestore gli ha riferito che lo stavo aspettando per incontrarlo. Senza giacca mi sono precipitata fuori, sotto la neve e nella corrente gelida del vicolo gli ho stretto la mano. Era seduto sulla sua sedia a rotelle in tuta e giacca a vento. Era pronto ad andarsene. Eppure si è fermato, mi ha sorriso e poi mi ha chiesto come mi chiamavo, anche se non credo abbia davvero capito quale fosse il mio strano nome.
Gli ho porto il suo libro, se l’è appoggiato sulle gambe e con la mano tremante ha fatto uno scarabocchio sulla prima pagina bianca. Me lo ha restituito sorridendo. Tutta la scena sarà durata meno di un minuto, lo ricordo come un surreale momento rubato al caso che mi aveva portata lì. Forse i corsi d’acqua mi piacciono tanto perché mi fanno pensare che la vita scorre come loro e che abbandonarmi alla sua corrente mi porterà esattamente dove devo andare