A dicembre 2015 ho trascorso dieci giorni a Istanbul dormendo nell’antico quartiere di Balat. Nelle grandi città succede quasi sempre: in poche vie di alcune zone si concentra la storia e i tratti che costruiscono il suo immaginario. L’atmosfera di Balat mi ha riportata a come doveva essere la “Istanbul” del libro di Pamuk. Spirituale e introversa, intima ma anche maestosa.
Europa di qua, Asia di là; progressismo di qua, conservatorismo di là.
Prima di andarci pensavo che la spartizione geografica fosse anche quella culturale ma una volta lì mi sono accorta che il netto confine terrestre, che dovrebbe separare una civiltà da un’altra, in realtà è un mosaico a macchie. Così accade che il quartiere più conservatore e religioso di tutta Istanbul non si trova in Asia, oltre il ponte sul Bosforo. Contrariamente a qualsiasi preconcetto è a occidente e si chiama Balat.
Io e Marco avevamo preso tramite Airbnb una casa proprio in questo quartiere, un bellissimo appartamento su due piani, si chiama The Terrace on the Golden Horn. L’appartamento è di due architetti, lui francese lei turca. Il soggiorno e la camera si affacciavano sul Corno d’Oro e aveva una splendida terrazza. La sera, stanchissimi, ci guardavamo dei film con il camino acceso e Istanbul illuminata. Per me Istanbul sarà per sempre quel vasto quadro incorniciato che si offriva ai miei occhi ogni sera e ogni mattina.
Il quartiere di Balat confina con quello di Fener, molti la considerano un’unica area, quella di Fener-Balat. Qui è tutto in salita e decisamente fatiscente, molto simile credo alla Istanbul di 50 anni fa. I suoi vicoli stretti sono fiancheggiati da antiche case di legno e pietra, quelle restaurate sono colorate e vagamente surreali, altre secondo me potrebbero crollare da un momento all’altro. Da come si muovono donne e bambini, su e giù per queste strade, si ha l’impressione che stiano andando in un posto misterioso, attraverso vicoli e cancelli segreti. In realtà vanno al mercato o sono diretti alla grande moschea di Fatih, che domina Fener, Balat e tutta la città.
È un’area a dominanza ebraica ma ci sono anche molti mussulmani, le strade brulicano di uomini in barba lunga, boccoli e “zucchetto” e donne con il chador nero fino ai piedi. Alcune lo indossano anche colorato ma non ho capito se va interpretato come un segnale di culto moderato.
Balat dà l’impressione di essere un paesotto a parte, un piccolo regno totalmente autosufficiente e che non ne vuole saperne niente delle vetrine scintillanti di Istakal Kaddesi, la strada dal sapore più occidentale di Istanbul.
Lungo diverse traverse si susseguono alimentari Kosher, bar e bische dove uomini senza donne bevono the e giocano a carte. C’era una panetteria dove io e Marco siamo tornati spesso. Cuoceva il pane in un forno a legna, dei lunghi pani stretti e schiacciati come focacce che una volta cotti venivano esposti in vetrina impilati gli uni sugli come un millefoglie.
Io con gli stivali immersi nella neve mi inchiodavo davanti alla porta a vetri a guardare il fuoco che ardeva. Il pane usciva dal forno perfettamente brunito e le vetrine stracolme profumavano di strati di pane appena sfornato. Nel mio cuore, dopo il Salep (qui ti racconto cos’è il Salep) , quasi a parità, viene il pane del fornaio di Balat.